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Accoglienza, missione possibile? È stata questa la domanda che noi giovani di Azione Cattolica ci siamo posti durante il consueto meeting per la pace 2019, svoltosi lo scorso 22 febbraio, presso la biblioteca comunale di Adelfia.

Molte sono state le perplessità nate prima di decidere di trattare un tema delicato come questo. Il rischio era di scivolare nel dibattito politico che, se pur nelle più diverse posizioni pro e contro accoglienza, sembra spaccare e dividere totalmente l’opinione pubblica su argomento così controverso e delicato.

Per questo abbiamo deciso di coinvolgere più figure tese ad aiutarci a capire davvero qualcosa in più sull’argomento. In primo luogo, abbiamo chiesto a Vito Mariella, presidente regionale del C.N.C.A. (coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza) di raccontarci in quale contesto storico, politico e geografico i migranti decidono di partire su imbarcazioni di ogni tipo per lasciare la propria terra d’origine e affrontare un viaggio che non sempre si conclude con un “felice” approdo. Sono ormai tristemente note e quotidiane le storie di barconi affondati che rendono sempre di più il nostro Mediterraneo un cimitero a cielo aperto.

Ma ad essere tragico non è solo il viaggio, lo è anche tutto quello che avviene prima. Facciamo nostro, per esempio, quello che avviene in Libia. Lì ci sono centri di detenzione dove ci sono persone che sono state intercettate nel Mediterraneo dalla guardia costiera libica e rimandate indietro anche tre volte. Quelle persone sono tutti potenziali rifugiati che scappano dal Sudan, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Somalia posti segnati da enormi sofferenze e interminabili guerre civili e che in Europa potrebbero beneficiare della protezione internazionale.

La Libia però non ha sottoscritto la convenzione di Ginevra sui rifugiati e riconosce una forma di protezione solo a sette nazionalità (siriani, iracheni, palestinesi, somali, eritrei, etiopi di etnia oromo e sudanesi provenienti dal Darfur) e questo rende tutti gli altri potenziali clandestini. Ma questa è solo una delle tante verità che forse conosciamo per sentito dire o di cui, forse, ne ignoriamo l’esistenza. E’ impossibile spiegare in poche riga quello che sta accadendo, anche quello che abbiamo riportato su è una goccia nell’oceano di situazioni da apprendere e studiare. Eppure sotto i nostri occhi si sta consumando una nuova Shoah. Questi centri sono allo stremo, l’effetto che si crea è quello ad imbuto. Aggiungiamoci pure che ci sono bambini molto piccoli, donne incinte e adolescenti in strutture sovraffollate, senza acqua corrente, con servizi igenici ridottissimi. Aggiungiamoci, ancora, che questi disperati sono vittime delle angherie di bande di giovani criminali dove la violenza è linguaggio quotidiano. La detenzione è a tempo indefinito: si viene rilasciati solo dietro il pagamento di un riscatto da parte dei familiari o se “riscattati” da un datore di lavoro o un intermediario libico che così diventa “creditore” del migrante. Nelle nostre orecchie risuonano ancora le parole di Diane, una storia vera, che abbiamo raccolto grazie all’associazione Micaela e che se pur nei suoi tratti cruenti e duri abbiamo voluto leggere e rendere pubblica. Il corpo straziato e violentato di una ragazza poco più che adolescente non può lasciarci indifferenti. Lo sfruttamento della prostituzione è solo una delle tante storie che potremmo raccogliere, anche guardando al nostro territorio parrocchiale. Prima di giudicare, chiediamoci qual è la storia del migrante che ci passa affianco. E’ questo quello che l’associazione Migrantes di Brindisi ha provato a raccontarci nelle persona di Sabina Bombacigno, Mike, Eghe ed Henry Israel. La sfida che l’associazione porta avanti da sempre è quella della integrazione che passa dalla creazione di una scuola di alfabetizzazione di italiano, fino a quella dell’accompagnamento alla ricerca di un lavoro. Piccoli passi ma necessari per ricordare a noi tutti l’urgenza di restare umani.

E proprio poi sul tema dell’urgenza, del primo approdo, abbiamo pensato a Lampedusa, ultimo lembo di territorio italiano prima della costa africana; basti pensare che dista 210 km dalle coste siciliane e solo 152 km da quelle africane. A Don Carmelo La Magra, parroco di Lampedusa e assistente di azione cattolica della diocesi di Agrigento, abbiamo chiesto come realizza insieme agli isolani l’accoglienza di questi nostri amici migranti. La risposta non poteva che essere così disarmante e semplice allo stesso tempo. Assoluta priorità dei diritti umani, volontà di annunciare un Vangelo dove il cristianesimo non è la conservazione di una cultura, ma la relazione con Cristo che si vive nell'incontro con il prossimo, con colui che il Signore ci mette accanto ogni giorno. Entrare in empatia, cioè esercitare capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui, "mettersi nei panni dell'altro" per capire quale tragedia lo sta attraversando. Da cristiani siamo chiamati a non voltare il capo, a non mischiarci tra la folla che gridando parla di negazione, di chiusura. Siamo i cristiani, quelli chiamati ad “organizzare la speranza” e siamo, ancora noi, quelli di “in piedi, costruttori di pace”!!!